Nella giornata di sabato, il Mugello è stato teatro di uno degli incidenti fatali della lunga storia del Motomondiale. Aldilà del mero risultato sportivo, che in questi casi passa abbandonatamente in secondo piano, la pista ci ha portato via la giovane fiamma di Jason Dupasquier. Il motociclismo ha rivolto al mondo nuovamente il suo lato crudele. La morte ha sempre fatto da opaco sfondo a questo meraviglioso sport. È una possibilità con cui loro, eroici piloti, fanno i conti ogni volta che abbassano la visiera. La affrontano a viso aperto, da soli. E se l’evoluzione in materia di sicurezza di caschi, tute, protezioni varie e circuiti ci hanno fortunatamente tolto l’abitudine di vivere questi momenti, non va mai dimenticato che la fatalità è dietro ogni curva.
La gestione degli incidenti fatali nel Motomondiale
Oltre al profondo dolore che questa morte ci lascia, emergono le tante tematiche che si presentano con episodi così tragici. Una su tutte è la comunicazione delle notizie ai piloti e il loro coinvolgimento. Non è lontanamente sensato instituire un minuto di silenzio per un ragazzo appena scomparso 15 minuti prima del via di una gara. Qui l’organizzazione non è scusabile. Come si può solo tornare lucidi e sfiorare i 360 km/h dopo un momento così toccante e profondo? Altra situazione delicatissima in cui nessuno di noi vorrebbe trovarsi è se sia giusto o sbagliato continuare. Difficile stabilirlo, restano solo tante opinioni estremamente soggettive che vanno ascoltate e rispettate. Ieri si è deciso di andare avanti. Tante altre volte si è deciso di farlo, di omaggiare la morte di un pilota correndo. Oltre a Dupasquier, lo si è fatto con Kato, Tomizawa e Salom.
Ed ogni singola volta si sono presentate le stesse identiche problematiche. Giusto o sbagliato? Chissà. Per Bagnaia e Petrucci ieri bisognava fermarsi, per altri come Rossi ed Oliveira il fermarsi non avrebbe riportato in vita Jason. Ma nel momento cui ci si fosse fermati, sarebbero stati d’accordo nel farlo. Solo con Simoncelli la gara fu annullata. Il motivo di tale scelta rimane in sospeso. Anche Kato e Tomizawa hanno lasciato il mondo in circostanze simili al Sic, ma le scelte sono state differenti. Individuare una linea standard in queste situazioni è praticamente impossibile. Sarebbe però doveroso ed opportuno interpellare direttamente i piloti e preoccuparsi di cosa provano in quei momenti. Cosa che ieri non si è verificata.
Non c’è casco che tenga contro la fatalità e il destino
Dal 2000 ad oggi, le morti sulle piste del Motomondiale sono state cinque contando quella di Dupasqueir di ieri. Kato morì il 6 aprile 2003 dopo un coma di 13 giorni in seguito ad un incidente nel corso del GP inaugurale di quel mondiale a Suzuka. Tomizawa fu investito nel corso del GP di Misano del 5 settembre 2010 a cui seguì, l’anno dopo, la morte del Sic nel corso del GP della Malesia. Era il 23 ottobre 2011. Infine Luis Salom, morto dopo una caduta nel corso delle prove libere del GP di Barcellona il 3 giugno 2016.
Tolti Kato e Salom, le cui morti solo legate per lo più alle insufficienti condizioni di sicurezza del tracciato, le altre hanno un unico comune denominatore: l’investimento. Che sia da parte della propria moto o da altri piloti che sopraggiungono, non fa differenza. E forse sarà un problema a cui non esisterà mai una soluzione. Nonostante le incredibili gesta di questi eroi, il “fragile” corpo umano non può resistere a impatti così violenti. Lo sviluppo in materia di sicurezza continua a progredire, riducendo drasticamente gli incidenti mortali. Purtroppo la variabile dettata dal destino e dalla fatalità non potrà mai essere debellata. Chi corre in moto questo lo sa. Il problema è che la passione ed i sogni di questi eroi sono ben più grandi della paura di morire. Ciao Jason Dupasquier.
Riccardo Zoppi